Lettera a mio figlio

Oggi è il tuo sedicesimo compleanno. Vorrei farti i migliori auguri possibili. Cerco di abbracciarti, ma come al solito non ti piacciono gli abbracci delle persone, solo quelli che fai tu. Mi stringi di dietro, afferri i miei capelli con i tuoi denti e tiri. Un attimo ti lascio fare, non ti voglio respingere. Poi sento il bagnato sul collo, mi giro e cerco di liberarmi.

La tua festa oggi sarà diversa dai compleanni di altri ragazzi della tua età. Non mi dici cosa vorresti come regalo. Non hai amici che possiamo invitare. Quando stasera mangeremo la pizza insieme con le persone che si prendono cura di te, forse sarai già a letto. Per te sarà un giorno come qualsiasi altro.

Avevo delle idee diverse sul percorso della tua vita. Certo, non ne ero cosciente, ma avevo un piano ben preciso per te: Dovevi avere due mani e saperle usare, due piedi che ti portavano ad esplorare le vie vicine e lontane, due occhi per vedere il mondo e una testa per capirlo e trovare la tua strada.

16 anni fa ti hanno messo sulla mia pancia appena nato,e tu hai preso il mio latte. Eri così calmo, anche quando ti hanno portato da me e ti ho infilato accanto nel letto dove dormivi finché le infermiere non sono venute a cercati. Però in quel primi giorni è rimasto poco tempo per stare insieme e conoscerci. Potevo solo guardare quando ti hanno portato via in un altro ospedale, in quella culla di vetro, con un ago nella testa.

C’è voluta mezz’ora per poterti trovare in quell’altro ospedale, e solo per vederti da dietro il vetro, nudo sotto una lampada, con le mani legate per non farti del male, un filo di qua e di là. “Signora, non le posso dire niente per ora, Lei può anche tornare a casa. Ci vorranno diversi giorni per tutti gli esami. No, non può allattare, il latte lo diamo noi, no, alle mamme qui non è permesso entrare”.

Sono rimasta. Mi sono tirata il latte per farlo dare a te e per non perderlo. Non sono mai stata così male come in quella settimana. Non mi illudo che la mia pena fosse per te. Tu eri ancora una parte di me. Il mio dolore era per quello che stava succedendo a me.

Poi ti ho portato a casa come sano, senza nessuna diagnosi. Chi sa se nel fondo del mio cuore sapevo che non era vero. Volevo credere a quello che mi dicevano. E loro, quando finalmente è arrivato il risultato dell’esame genetico, non mi hanno detto niente. Lo hanno semplicemente perso per la strada.

La persona che finalmente mi ha costretta ad aprire gli occhi era quasi una sconosciuta per noi. Grazie a lei ti abbiamo portato da altri specialisti, e grazie a loro hai iniziato il tuo percorso dell’ abilitazione così presto. Infatti, loro sapevano già fare una diagnosi, senza tanti esami, solo osservandoti: “Questo bambino ha dei problemi gravi nel funzionamento del cervello.”

La tua nonna tedesca era tutta pazza di te. Mi faceva una rabbia quando diceva: “Vedrai, non è niente, è solo un po’ più lento, ci sono bambini così. Goditelo, finché è così piccolo e indifeso.” La paura che ci fosse qualcosa di grave in te l’ha fatta diventare cieca davanti all’evidenza.

In genere, quando i figli crescono, i genitori hanno il tempo per staccarsi lentamente dalle loro aspettative. Volevano uno che facesse il dottore, invece ha smesso la scuola superiore e ora lavora come giardiniere. Volevano una ragazza sportiva, invece è diventata sovrappeso e non c’è verso di farla mangiare meno. Volevano uno che fa carriera, invece ha avuto un bambino a 17 anni e ora deve lavorare per tirare avanti. Qualunque fosse stato il mio progetto per te, quando avevi 6 mesi l’ho messo da parte per sempre e ho cercato di camminare verso nuove mete. Mete molto più piccole, ma nello stesso tempo grandi come le montagne. Farti sedere senza aiuto. Farti girare la testa quando sentivi chiamare il tuo nome. Farti guardare nei miei occhi.

Staccarsi dal mio progetto sulla tua vita è stata molto doloroso. Ma lo dovevo fare per vederti come sei. Non avrei potuto aiutarti nel tuo cammino senza accettarti per quello che sei. Se rimanevo attaccata alla mia immagine del bambino perfetto non avrei potuto accompagnarti su questa tua strada.

Il dolore però era il mio, ed è rimasto mio. Tu eri e sei tranquillo e felice come sei. Non ti sei mai chiesto come sarebbe se fossi diverso. Non ti misuri con gli altri. Ti sei accettato fin dall’inizio per quello che sei. In questo sei molto più bravo di me. Infatti, mi chiedo, se non sono io quella che soffre di più in tutto questo. Che vedo quello in cui non riesci. Che ho paura pensando a cosa ne sarà di te quando non ci saremo più noi.

Fin da piccolo hai sempre voluto arrivare in alto. Non gattonavi, ma ti tiravi su al radiatore per dondolare in piedi. Appena ti sentivi più sicuro cominciavi a buttare giù le seggiole. Che rumore forte riuscivi a produrre così! Ridevi di contentezza e non ti importavano le nostre grida. Chissà se per te era una specie di applauso in ogni caso cercavi subito il prossimo oggetto da buttare.

Poi scoprivi il tavolo. Quando avevi imparato a starci sopra battevi i piedi e – terrorizzando gli eventuali spettatori inesperti – ti giravi come una trottola. Non siamo mai riusciti a farti smettere di andare sopra il tavolo, era troppo divertente per te. Ora forse è diventato un po’ noioso, allora ti limiti a starci in piedi sopra e fare impronte con le mani sul soffitto..

Se trovavi una scala la dovevi salire in tutti modi. Forse avevi un programma di allenamento segreto che seguivi con così tanta ostinazione: Lo facevi su quattro zampe, da seduto, camminando indietro; e poi la dovevi scendere, anche questo in tutti modi possibili, fino a metterti sdraiato con la pancia in giù come fossi una slitta. Il colmo era quando ti sei messo in cima alla scala, sul cavallo a dondolo, e sei scivolato giù.

Ma c’erano anche altre cime da scalare: ti ricordi quando ti sei messo in piedi sopra la televisione e poi siete cascati tutti e tre: tu, la televisione e il tavolo sotto? Non ti è successo niente per miracolo, la TV spaccata e la spina ancora nella presa. Invece, quando per la seconda volta hai cavalcato la ringhiera della scala in sala, sei scivolato e, cascando praticamente un piano più in giù, ti sei rotto un osso del piede.

Ora il punto più alto dove arrivi è il bordo del focolare. E’ un punto strategico per te: Da lì arrivi alla tenda, riesci a staccare un quadro e puoi manipolare il portalampada, staccando il vetro, piegando i suoi bracci o svitando le lampadine.

Mi chiedo cosa farai, come passerai le tue giornate, quando non troverai più niente da scalare e da disfare.

Ti devo confessare che nei momenti più neri mi sono immaginata che la mattina quando apro la tua porta te ne sei andato per sempre. Mi ricordo che una volta dormivi così profondo che per un attimo la mia immaginazione sembrava essere diventata vera. Che spavento ho provato, e che senso di colpa! So bene che non volevo assolutamente perderti. Volevo solo avere un po’ più respiro, una vita quotidiana meno pesa. Ma se ti dovesse succedere qualcosa, sicuramente mi sentirei responsabile a causa di queste fantasie.

Tante volte mi hanno accompagnata sensi di colpa. Faccio abbastanza per te? Faccio le cose giuste? Nel momento giusto? Alla fine siamo noi genitori che dobbiamo decidere. Anche se un medico ci dice cosa fare, siamo noi che lo facciamo o cerchiamo un altro consiglio. Sicuramente ho fatto delle scelte sbagliate con te. Con il Valium che prendevi hai dormito anni interi. Mi hanno detto solo dopo in un altro ospedale che la cura era completamente fuori posto. Tu invece sei senza colpe. Sei una persona vicino a Dio, come dicono in Irlanda. Tu vivi in un'altra dimensione. La tua piccola anima è pura come quella di un bambino appena nato. Nessuno ti darebbe mai colpe, anche se delle volte qualcuno alza la voce con te per un momento, quando lecchi il muro o tiri capelli o butti il piatto in terra. Tu non conosci il male.

Tu eri ancora piccolo, quando tuo fratello festeggiava il suo quinto compleanno. Guardava con degli amici la nuova cassetta dei Power Ranger, mentre tu giravi intorno con un trenino di legno in mano. Colpisti tuo fratello sulla testa, quello si girò arrabbiato per difendersi, poi vide che eri tu e si fermò nel movimento. Questo ho visto solo dopo nel video che ho ripreso. Nessuna ripicca era possibile contro il fratellino malato.

C’erano dei momenti in cui desideravo essere io la persona malata. Per non avere più la responsabilità per quello che ti succede e che fai. Infatti, quando mi sono ricoverata per l’intervento al ginocchio ero sicuramente la più allegra paziente di tutto l’ospedale. Però era solo un’ illusione. A casa, senza possibilità di starti dietro, e vedere gli altri che cercavano di gestire la situazione come potevano, la situazione era ancora più stressante.

In tutti questi anni ho cercato di proteggerti dal mondo, da un mondo dove contano solo le persone che rendono. E le persone potenti, che definiscono cosa rende. In quella scala di valori non esiste quello che puoi dare tu. Quello che ho imparato da te e che mi ha fatto così tanto più ricca: capire cosa è veramente importante nella vita, vivere momento per momento, senza prendere per scontato quello che abbiamo.

Ma ho dovuto anche proteggere il mondo da te, che sei diventato così veloce e forte, con le mani dappertutto, con i tuoi urli insopportabili, con la tua forza che non reggo più. Per alleggerire la fatica ti abbiamo dato tanti soprannomi: tempesta, Fabio il terribile, terremoto, persino terrorista. Non prendertela con noi per questo. L’abbiamo fatto con un occhio che piange e uno che ride.

Poi ho dovuto anche imparare a difendermi da te, dalle tue carezze così violente da aggiungere al dolore nel mio cuore anche quello fisico, e dalle tue aspettative infinite verso di me, che sono la mamma infinita per te. Non sono infinita. Per dire la verità, dopo questi 16 anni sono abbastanza finita…

Ora succede che qualche mattina mi giro ancora nel letto, e anche se ti ho già sentito trafficare nella tua stanza, invece di correre da te, vado prima a prendere un sorso di caffè che il tuo babbo nel suo infinito amore mi prepara tutte le mattine.

Sto per tagliare il secondo cordone ombelicale, quello invisibile, che crea quel legame particolare fra le mamme e i figli come te. Questo non vuol dire che non ti voglio più bene. Per te, ci sarà sempre un posto speciale nel mio cuore, e questo tu lo sai. Ma sento ora, dopo 16 anni, che non sei più una parte di me.

Fai le tue esperienze, a modo tuo.

Certo, ti ci vorrà sempre una mano che ti guida e ti aiuta, ma non sempre sarà la mia.

Devi essere protetto, perché non ti puoi proteggere da solo, ma non sarà solo mio il compito di farlo. Avrai la tua vita con le tue gioie e i tuoi dolori, come tutte le persone di questo mondo, e io non li potrò dividere tutti con te.

Christine Reimann Primavera 2009

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